“La vera fonte di ispirazione – afferma l’artista – non può che essere la realtà, ma non la realtà particolare: è l’intera mia esperienza di vita dalla quale si sviluppano, come per tutti credo, pensieri ed emozioni”.

Carmine Fiore è fermo nell’idea che la fotografia sia soprattutto possibilità di evocare, memorizzare, reinventarsi ed imparare, a partire dalla realtà nel suo lato concreto e nel suo lato fenomenologico.  

“dhcmrlchtdj” paradossalmente segna un ritorno alla prima stagione artistica, e tuttavia evolve e trasforma il senso estetico e lo stile della seconda.
Della prima stagione, infatti, preserva l’attenzione allo scatto fotografico nel suo elemento tecnico: la scelta del soggetto, la messa in primo piano, la sua celebrazione. E soprattutto l’intensità rivelata della vocazione dell’artista a ricercare la natura, l’anima. Fiori e piante erano chiamati quali punti d’appoggio e di partenza per il proprio processo ricreativo e di conoscenza, e al tempo stesso obbiettivi estetici di una tal Idea, di bellezza, di fragilità, di sensualità.
Lo stile di questa mostra di Carmine Fiore, però, si accosta ed è anzi una trasformazione di quello dell’ultima mostra, SPIAGGE (dubbi al confino) del 2008: la vocazione indagatrice dell’artista è forte della consapevolezza che ogni soggetto racchiude la propria storia in via indipendente dalla propria. Ed ogni suo segno, ogni sua posa, testimoniano piuttosto l’inconoscibilità effettiva della sua reale natura.

Se in SPIAGGE (dubbi al confino) i soggetti erano come eterei ed impalpabili, rivelatori di pura energia piuttosto che di identità, qui invece assumono ancora il ruolo di “punti di appoggio”. Vivono e rappresentano, però, un’identità “pesante” agli occhi dell’artista, trovandosi sprovvisto della chiave di lettura adeguata e corrispondente. E che è oggetto, per lui, di una riflessione di Senso religiosa.

L’artista, nella sua opera attuale, rivela il tentativo di conoscere appieno i suoi soggetti, e perciò l’impegno per la visione più corretta. Non già mettendo in primo piano e solamente un dato gesto o una posa, ma preoccupandosi del sotto-testo, del loro “perché” significante. Ed a questo vale l’associazione alle immagini fotografate di elementi di scrittura, che davvero mostrano la vocazione dell’artista di poter conoscere i suoi soggetti con gli occhi di Dio e con la conoscenza di Dio. E’ in lui, infatti, che l’artista ripone massima fiducia di Conoscenza, e pare rivolgere a Lui i suoi sforzi – con la stessa fiducia riposta nella propria, benché selettiva e parziale, ma anche con sacro timore.

Carmine Fiore ha adottato il titolo della collettiva da un passo de “La biblioteca di Babele” di Jeorge Luis Borges “Non posso immaginare – si legge nel testo – alcuna combinazione di caratteri (dhcmrlchtdj) che la divina Biblioteca non abbia previsto, e che in alcuna delle sue lingue segrete non racchiuda un terribile significato”.

L’artista, per sua volontà, ci istruisce anche sull’ispirazione complessiva della sua collettiva al testo di Jorge Luis Borges, nel suo senso primo di profonda fiducia nell’umano e profondo smarrimento allo stesso tempo di fronte alla possibilità della Verità Narrativa e perciò della possibilità umana di conoscere secondo Verità.

In un passo soprattutto del testo ritroviamo l’ispirazione di Fiore per quell’artistico equilibrio: la scelta di soggetti e la loro associazione con elementi di scrittura. Passo in cui si parla di libri: libri che si susseguono nella Storia e si completano, alcuni, e libri inaffidabili altri, nonostante anch’essi concorrano al piano divino. Per dirlo con Borges (riferendosi all’oggetto “libro”) “io preferisco sognare che queste superfici ar-gentate figurino e promettano l’infinito”.

Altrove nel testo leggiamo:
<<Affermano gli empì che il nonsenso è normale nella Bíblioteca, e che il ragionevole (come anche l’umile e semplice coerenza) vi è una quasi miracolosa eccezione. Parlano (lo so) della «Bíblioteca febbrile, i cui casuali volumi corrono il rischio incessante di mutarsi in altri, e tutto affermano, negano e confondono come una divinità in delirio». Queste parole, che non solo denunciano il disordine, ma lo illustrano, testimoniano generalmente del pessimo gusto e della disperata ignoranza di chi le pronuncia. In realtà, la Biblioteca include tutte le strutture verbali, tutte le variazioni permesse dai venticinque simboli ortografici, ma non un solo nonsenso assoluto. Inutile osservarmi che il miglior volume dei molti esagoni che amministro s’intitola Tuono pettinato, un altro Il crampo di gesso e un altro Axaxaxas mlö. Queste proposizioni, a prima vista incoerenti, sono indubbiamente suscettibili d’una giustificazione crittografica o allegorica; questa giustificazione è verbale, e però, ex hypothesi, già figura nella Biblioteca. Non posso immaginare alcuna combinazione di caratteri che la divina Biblioteca non abbia previsto, e che in alcuna delle sue lingue segrete non racchiuda un terribile significato. Nessuno può articolare una sillaba che non sia piena di tenerezze e di terrori; che non sia, in uno di quei linguaggi, il nome poderoso di un dio. Parlare è incorrere in tautologie. Questa epistola inutile e verbosa già esiste in uno dei trenta volumi dei cinque scaffali di uno degli innumerabili esagoni – e cosí pure la sua confutazione>>.
(J.L.Borges, La Biblioteca di Babele, 1941)

di Federica Mussoni

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